Helleborus: erba magica o veleno ormai sconosciuto

Helleborus niger

Di certe erbe magiche e miracolose tanto esaltate dai poeti e sperimentate dagli antichi medici, poco è rimasto nella terapia moderna; non è facile infatti, in virtù delle moderne conoscenze, porre in relazione le presunte proprietà straordinarie di queste piante con i nuovi sistemi di terapia.

Ne consegue che alcuni rimedi, con tutto il loro bagaglio di illusioni alimentate ad antiche credenze popolari, siano svaniti nel tempo e abbiano trovato posto soltanto nella storia della materia medica.

Già Ippocrate nel 400 a.C. conosceva l’elleboro e lo considerava come vomitivo nei dolori addominali e come purgante drastico, in quanto sosteneva che la pianta svolgesse nel sangue un’azione generale e riuscisse a cacciare lentamente gli “umori cattivi” ma, nello stesso tempo, provocasse il vomito. Occorreva però provocare il vomito né troppo presto, per non impedire l’azione generale, né troppo tardi perché allora insorgevano i sintomi d’intossicazione. Per raggiungere tale scopo infatti, i medici romani tenevano a disposizione un vero armamentario costituito da letti orizzontali, inclinati o sospesi, lunghe penne d’oca e guanti le cui dita smisurate si potevano introdurre nella gola del paziente; tutto ciò serviva ad accelerare e rallentare il vomito.

L’uomo si servì di questa pianta non solo per curare le proprie malattie ma anche quelle degli animali e a questo proposito Lucio Giunio Moderato Columella nella sua opera Dell’Agricoltura citò l’elleboro come rimedio forte per combattere la scabbia di vecchia data del cavallo: bastava cuocere dello zolfo e dell’elleboro nella pece liquida mescolata a sugna e poi curare le parti malate con questa composizione dopo aver lavato la pelle con l’urina. Lo stesso preparato serviva anche, se mescolato al cumino, a cacciare le pulci dai cani.

La fama dell’elleboro però è legata soprattutto a vicende magiche e miracolose guarigioni. Racconta Erodoto nel 400 a.C. di una celebre guarigione miracolosa compiuta da Melampo, indovino di Argo, il quale guarì dalla pazzia le figlie di Preto, re di Tirinto, che credendo di essere delle giovenche vagavano nude per la foresta. Melampo somministrò loro del latte di capre che si erano cibate della pianta procurando così la guarigione delle principesse e ciò gli valse un lauto compenso; egli divenne re di Argo sposando una delle figlie di Preto ed ebbe la fama ufficiale di guaritore e il privilegio di aver per primo introdotto nella terapia delle malattie mentali questa pianta. Sotto il nome di “melampodium” infatti, l’elleboro rimase per molto tempo uno dei medicamenti popolari più diffusi nella cura della pazzia.

Da queste convinzioni presero spunto le antiche pratiche popolari che attribuivano virtù magiche alla pianta come quella di orare gli orecchi del bestiame facendo passare attraverso il foro una radice di elleboro per difenderli dai morsi dei serpenti, o di introdurre la radice stessa fra la pelle e la carne degli uomini per difenderli da ogni pestilenza e ancora la credenza che l’elleboro guarisse magicamente la pazzia, in virtù delle sue proprietà starnutatorie. Si riteneva infatti che con lo starnuto sortisse un demone che aveva sede nel corpo.

Nei primi dell’800 l’elleboro venne inserito nelle farmacopee come medicamento purgativo, drastico, starnutatorio e velenoso.

Il rizoma di elleboro contiene un composto glucosidico di nome elleborina dotato di intensa attività cardiocinetica.

L’elleborina eserciterebbe un’azione tonica sulla muscolatura del cuore e un’azione inibitrice sulla conduzione atrio-ventricolare con un meccanismo molto simile a quello della strofantina: molto rapido e senza accumulo.

Tuttavia, nonostante la validità del principio attivo, l’attività complessiva dell’elleboro non è ancora del tutto chiara in quanto l’azione cardiocinetica è accompagnata da una marcata azione narcotica e da un’intensa azione irritativa delle mucose dell’apparato digerente.

Oltre ad una violenta azione starnutatoria, l’elleboro ha la capacità, se applicato fresco sulla cute, di provocare la comparsa di eritemi sierosi.

Questi spiacevoli e indesiderati fenomeni provocati dalla pianta hanno determinato un lento abbandono del suo impiego e la sua scomparsa dalle terapie.


Fonti:

E. Riva, L’universo delle piante medicinali, Tassotti editore, 1995.